Da brava lettrice compulsiva con tanto di laurea in lettere e passato professionale nell’editoria e nella comunicazione, amo profondamente la lingua italiana. La amo perché bella, musicale e soprattutto ricca di sinonimi come poche lingue al mondo, il che ci consente una ricchezza di espressione che i più, onestamente, si sognano.
Per questo ho una sincera e profonda repulsione per l’orribile abitudine di abusare di termini esteri o presunti tali (vedi le tante parole latine pronunciate all’inglese) che sarebbero perfettamente ed elegantemente sostituibili con vocaboli italiani: capisco che in alcuni casi ci sia un linguaggio tecnico che lo impone, e non voglio certo cadere nel ridicolo di chi si impunta a tradurre persino “computer”, ma da lì a dire “misunderstanding” quando potremmo tranquillamente scegliere tra “fraintendimento”, “incomprensione”, “malinteso” ed “equivoco” ce ne passa, no?
Per lo stesso motivo caldeggio fortemente l’uso dell’appropriata terminologia italiana anche per quanto riguarda la tavola. Non parlo ovviamente della cucina, perché lì c’è tutto un vocabolario professionale relativo a procedimenti e preparazioni che sarebbe anche difficile tradurre. Mi riferisco piuttosto a una certa terminologia propria dell’allestimento e del servizio, anch’essa tecnica, ma che molti usano solo perché la pensano più elegante del corrispondente italiano. In realtà, al di fuori dei contesti professionali, non c’è davvero motivo di utilizzare queste espressioni, che addirittura rischiano di far apparire chi le adopera terribilmente fuori luogo.
Insomma, se non siamo francesi d’origine o di adozione, oppure professionisti della ristorazione, dire mise en place invece di apparecchiatura o placé invece di posto tavola non solo non è indispensabile, ma potrebbe anche suonare pretenzioso. Lasciamo quindi a chef e ristoratori i rispettivi vocabolari professionali e godiamoci il privilegio di parlare il nostro meraviglioso italiano, presentandoci con semplicità per quello che siamo, ovvero persone che amano aprire la loro casa a parenti e amici senza forzature di sorta, linguistiche, stilistiche o culinarie che siano.
Se escludiamo il linguaggio tecnico, l’uso di certi termini fa anche terribilmente parvenu…
Una portata di escargots è certamente diversa da una di veneti bogoni: il problema è saper apprezzare l’una e l’altra e non vantare la prima e guardare con ribrezzo o sufficienza la seconda (o chiamare l’una per l’altra…).
Direi che alla base della smania di usare termini stranieri ci sia appunto questa incapacità di valutare le cose per quello che sono. Il meccanismo è quello dell’etichetta: si valuta il contenitore, non il contenuto, perché in realtà non si hanno gli strumenti per farlo. Si ascolta il suono esotico e con questo si riempie il vuoto di pensiero. Il problema è questo, in fondo, e certe abitudini sono solo il sintomo di un male più profondo.
Triste ma vero 😦