
Come ben sapete, domani, 4 novembre, l’Italia ricorda la fine della Prima Guerra Mondiale e ne onora i caduti. Non è l’unico paese, ovviamente: per esempio l’Inghilterra e gli altri paesi anglosassoni lo faranno l’11 novembre, celebrando il Remembrance Day.
Se avete l’occasione di andare a Londra prima di questa data, non perdete la spettacolare installazione artistico-celebrativa alla Tower of London: più di ottocentomila papaveri in ceramica ne trasformano infatti il vallo in un fiume rosso sangue, in memoria delle vittime del conflitto. Proprio il papavero è infatti il fiore simbolo dei caduti nella Grande Guerra, grazie alla poesia scritta da un militare canadese, John McCrae: la sua In Flanders Fields canta infatti proprio i papaveri, che con le loro corolle rosso sangue ricordano i soldati caduti.
La stessa poesia ha ispirato anche Fabrizio De André nel comporre quello che per me è il suo capolavoro, La guerra di Piero. E’ una canzone che mi tocca profondamente, sia perché la trovo un esempio altissimo di poesia, sia perché mi riporta alla memoria una di quelle storie di famiglia sentite da bambina che ti rimangono scolpite nella pelle.
Lui non si chiamava Piero ma Nino, ed era uno dei fratelli della nonna. Nato verso la fine dell’Ottocento, si era trovato a combattere poco più che ventenne, e nonostante la giovane età aveva un grado da ufficiale (tenente, credo, ma non sono sicura). Bene, gli capitò proprio quanto descritto nella canzone, con una sostanziale differenza: il lieto fine.
Durante un giro di perlustrazione, Nino incappò infatti in un coetaneo che, come canta De André, aveva “il suo identico umore, ma la divisa di un altro colore”. I due ragazzi si guardarono, mettendo contemporaneamente mano al fucile che portavano in spalla: ma appunto, se nessuno dei due aveva voglia di morire, non ne aveva nemmeno – potendo evitarlo – di “vedere gli occhi di un uomo che muore”. Istintivamente, capirono che potevano fidarsi l’uno dell’altro: così, senza dirsi una parola, levarono la mano dal fucile, si tolsero il guanto, si strinsero la mano e proseguirono incolumi ognuno per la sua strada.
Contrariamente a tanti altri ragazzi, Nino tornò sano e salvo dalla guerra, anche se di lì pochi anni ci pensò un brutto male a portarselo via. Non l’ho mai conosciuto, nemmeno in fotografia, eppure questo episodio l’ha consegnato alla mia memoria come un vero eroe, capace di rischiare la propria vita per un gesto di pace, nato da una nobiltà d’animo e da un altruismo che potevano costargli davvero cari.
Vi regalo la sua storia in memoria dei nove milioni di uomini e ragazzi (più di seicento mila solo nelle fila dell’esercito italiano) che non furono così fortunati da riabbracciare le loro famiglie. Per ricordare, ancora una volta, che la vita è bellissima e fragile, come la corolla di un papavero.
Grazie per questo post. Il 4 novembre 1918 è nato mio nonno, per me è sempre stata una data doppiamente speciale.
Un bimbo che nasce è un tenerissimo segno di pace. Grazie per averlo condiviso con noi